2007
Presentazione GIULIA NICCOLAI a
“Il sanscrito del corpo”

INTRODUZIONE di Giulia Niccolai a IL SANSCRITO DEL
CORPO (Fermenti, collana album/controsensi, 2007)

Questa nuova raccolta di poesie di Tiziana Colusso risulta
composta di tre sezioni: Il sanscrito del corpo che dà il titolo al
volume e comprende diciotto testi scritti tra il novembre del
2005 e il dicembre del 2006, Corporationes (nove poesie), e
Alfabeti naturali (quattro), entrambi composti
precedentemente, e cioè tra il 2004 e il 2005.
Così Tiziana ha voluto iniziare dalla “fine”, dalle sue ultime
prove, per poi risalire nel tempo, fornendoci tutti i tasselli di un
suo work in progress che ci riporta alla precedente raccolta:
Italiano per straniati (Fabio D’Ambrosio Editore), Milano
2004. Da Italiano per straniati ha voluto estrapolare un testo,
le braccia del Bodhisattva (datato Parigi 2001), da lei
considerato come germe aurorale dell’argomento “corpo +
riflessione spirituale” di cui è intessuto questo volume. Al
contempo questa operazione tende anche a dimostrare come
per l’autrice non siano tanto importanti le date, quanto piuttosto
la convinzione della compresenza in ogni momento di tutti gli
stati d’animo e di tutti i precedenti momenti della nostra vita di
cui ci ritroviamo sempre a essere la somma.
Come la stessa autrice vuole farci sapere, “sanscrito del
corpo” sono le parole di chiusura di un bellissimo poemetto di
Odissea Elitis, riportato – in epigrafe – alla prima pagina di
questo volume. Lo leggiamo come augurio a tutti (e a tutte)
noi, di poter vivere “iniziati” in amicizia, con consapevolezza e
senza masochismi o sadismi. Solo in quel particolare stato di
grazia il corpo comincerà a comunicare e noi riusciremo a
decifrarne il linguaggio, quel suo “sanscrito” appunto, che
parlerà alla nostra mente, fornendole preziose nozioni
psicologiche e rivelatrici di noi stessi, desunte dalla memoria
cellulare di carne, organi e ossa. Quando “cominceremo a
vivere iniziati al sanscrito del corpo”, diverremo anche, in
parte, medici di noi stessi, comprendendo blocchi e paure,
cause ed effetti di certe nostre malattie e intolleranze. In altre
parole, “vivere iniziati al sanscrito del corpo” significa
assumersi un maggiore responsabilità, avere certe intuizioni ed
introspezioni che ci porteranno inevitabilmente a credere nella
dura legge del karma e a comportarci di conseguenza.
Mi rendo conto di avere già cominciato a usare termini di una
filosofia orientale che in realtà pratichiamo entrambe Tiziana e
io, tramite due diverse scuole di Buddismo, ma l’ho fatto
perché questi termini sono ormai di dominio comune e
comprensibili a tutti. Se ciò è avvenuto, credo sia perché essi
sono ormai quasi indispensabili per poter sopravvivere in
questo nostro pianeta così cinico, globale e alla deriva.
Globalmente cinico e alla deriva?
Ma, per entrare nel vivo dell’argomento, leggendo questi testi
si potrà notare una certa differenza tra le poesie della prima
sezione e quelle delle due sezioni successive (ma scritte
precedentemente nel tempo). In quelle più datate è molto forte
il tono dell’invettiva e della rabbia e un ritmo che tende a
rafforzare l’inflessibilità di tali emozioni. Si tratta anche di testi
estremamente espliciti e quasi narrativi allo scopo di spiegare
al lettore le ragioni di tale accanimento e furore. In simili
dichiarazioni, a mio avviso, una chiarezza da manifesto toglie
qualcosa a quell’aspetto più misterioso, sottinteso e così
intrigante della poesia poesia. Ma certo, questa è una mia
personale opinione che va interpretata come tale. Non ho dubbi
sul fatto che molte persone potrebbero preferire proprio quei
testi che io non prediligo. Infatti, ad esempio, l’ottimo saggio
di Gaetano delli Santi su italiano per straniati dal titolo La
scrittura lapidaria, inizia con queste parole: «Il comune
sentimento dell’accettazione passiva e rassegnata, viene (nei
versi di Tiziana Colusso) scabrosamente e provocatoriamente
leso». Potrei allora aggiungere che la differenza (tra delli Santi
e me), sta nel fatto che, secondo il mio punto di vista, l’
“accettazione” (in una sua connotazione spirituale), non ha
niente di passivo o rassegnato, ma è solo constatazione (che
certe cose non possono essere mutate) e dunque una sorta di
dimostrazione di saggezza. In altre parole, chi crede nella legge
del karma (identica alla legge del contrappasso), non può non
accettare ciò che gli succede, perché è lui stesso che, in
passato, ha messo le basi delle cause di ciò che ora subisce
come effetto.
Nei diciotto poemetti del Sanscrito si respira un’intensa
positività, un’aria più serena e costruttiva, come in vacuum
mandala, ad esempio, dove l’aspirazione a uno spazio interiore
vasto e privo di ingombri equivale a un desiderio di “libertà”.
Una citazione leggermente trasformata da A Zacinto del
Foscolo ci riporta a un tempo anch’esso vasto e lontano, per
poi tornare a posarsi sull’autrice bambina, in villeggiatura,
quella notte del 21 luglio 1969 quando i primi astronauti
toccarono il suolo lunare. Si viene così a creare un salvifico
senso di continuità spazio-temporale che – ci pare – nessun
accadimento esterno potrà mai più annullare nello spirito
dell’autrice. Ma a questa nuova e inedita sicurezza l’autrice ci
arriva dopo la sofferenza di una grave operazione che fa
affiorare in lei tutta una serie di pensieri ed esperienze
“corporee” sparse negli anni.
Quanto al secondo importante poemetto della sezione,
kalachakra blues, vi si avverte nel sottofondo il desiderio di
un’ideologia nella quale poter credere, e ci si trova
ritmicamente coinvolti in lunghe catalogazioni che riescono a
trasmetterci una straordinaria energia, una vera e propria
esaltazione mentale. Un esperto gioco di assonanze interne
accelera il testo con grande padronanza da parte dell’autrice
(quando lo desidera), così come sa comunicarci anche un suo
quasi febbrile panteismo che vorrebbe tutto comprendere e
abbracciare: «… qualcosa di noi rimane seduto lì,/ sulla soglia
di ogni direzione,…», ma anche « fado/ fari nel buio/ finzioni/
frenesie -/ un’altra stagione del cuore/ bare discrete del tempo/
tra le valigie pronte/ continuamente».
Se è vero che per essere artisti validi bisogna essere
alchimisti, direi che Tiziana Colusso ce ne dà la prova nel
poemetto il sanscrito del corpo dove ritmo e parole sembrano
piegarsi alla sua volontà in modo tale da darci la sensazione del
brulichio di atomi, cellule, DNA, tutto ciò che di infinitamente
piccolo e informe costituisce quel brodo primordiale dal quale
ogni vita è derivata e ha preso forma.
O quell’insieme di materia infinitesimale di cui siamo
composti: «ci sono città nel corpo/ più numerose dei corpi
nelle città/ e attività febbrili nel buio di anse e cavità/ che
presiedono a ciò che vive/ finché vive…».
In carne senza destino, dedicata a Manuelina che non c’è più,
commuovono questi versi sul disagio e la sofferenza (per
certuni) di essere bambini, mentre secondo il “comune
buonsenso” quella dovrebbe essere l’età più felice e
spensierata della vita: «e l’horror inconsapevole di noi
bambine/ che sfogavamo l’infanzia cavalcando/ nei corridoi
una sedia a rotelle…». Ed è appunto l’ “inconsapevolezza”, il
non possedere validi punti di riferimento, per mancanza di
esperienza – data la giovanissima età – ciò che più fa soffrire.
Ma forse il testo più significante ed essenziale per
comprendere la poesia dell’autrice, la sua anima“antica” e la
sua ricerca di uno spazio “altro” (e di una non-dualità tra il sé e
l’altro-da-sé), è quel out of body experience, titolo scritto in
inglese perché suona meglio che in italiano, o per pudore, non
volendo essere troppo esplicita e diretta? Si tratta comunque –
e molto chiaramente – di aver sperimentato la separazione della
mente dal corpo dopo un incidente stradale e di aver così
capito, senza ombra di dubbio, che un “altrove” c’è, c’è una
vita (della mente o dell’anima) che continua dopo la morte del
corpo: «Intorno al corpo steso,/ incastrato nelle lamiere della
bici nera,/ passanti, poliziotti, barellieri d’ambulanza/ come
formiche su un miele color vino:/ intanto, più in alto,/ qualcosa
senza nome né peso/ abbracciava equanime/ l’orizzonte di una
periferia romana,/ un giardino stento/ con i resti di un circo, un
benzinaio,/ bevendo con ogni poro il sole/ smisurato e
magnifico di novembre/ che sembrava già attirare/ all’altrove».
Una tale esperienza non può non segnare profondamente chi
l’ha vissuta, trasformandosi in una sorta di morte-e-rinascita
che porterà a vedere il mondo in modo ben diverso da come lo
si considerava prima.
Dimostrazione di ciò potrebbe esserlo il poemetto successivo,
quel corpo libero
che è già una riflessiva e dunque non impulsiva disquisizione
sul vero senso di libertà (che non è fuga o evasione), bensì uno
«scioglimento di nodi», blocchi e afflizioni che abbiamo in noi,
rancori e amarezze che ci avvelenano l’esistenza e non sfiorano
nemmeno coloro che – a nostro avviso – ci danneggiano.
Prima di completare questo mio breve excursus tra i nuovi
versi di Tiziana Colusso, vorrei ricordare boarding now (col
suo omaggio a Giovanni del Giudice), nel quale l’autrice
dimostra ancora una volta la sua abilità nel trasfigurare il
linguaggio, imponendogli un’accelerazione che recepiamo
come gioia ed eccitazione dell’andare, del volare e «di un
largo movimento/ come d’orchestra», che in definitiva
corrisponde a un grande amore per la vita.