La partitura teatrale si presenta spontaneamente quando si tratta di trasmettere le molte voci che si accavallano intorno a un evento complesso e si dispiegano in una polifonia. La visionarietà scenica di Christine Hamp ha fatto lievitare la multi-vocalità del testo Il Precipizio in un complesso spettacolo multimediale. L’emozione di vedere il mio testo non solo messo in scena ma trasformato, distaccato da me e cresciuto come un figlio che ha ormai la sua strada, ha fatto ritornare con forza, non senza qualche lacrima sparsa in platea, la primigenia fascinazione del teatro come luogo di avventure collettive. Da lì, la decisione di riprendere il filo del discorso, ricostruendo le tappe del mio rapporto con il teatro e adunando i miei testi di teatro delle voci, le drammaturgie poetiche che lungo i decenni avevo elaborato e che erano finite mescolate a scritture di altro genere, disponendole finalmente in un cammino dotato di cuore, come deve essere ogni cammino.(Dalla quarta di copertina)
Sette testi di “drammaturgia poetica”, scritti in un arco di tempo lungo, dagli anni ’90 al 2023: alcuni già editi in plaquette o libri collettivi, altri solo rappresentati ma non editi, altri inediti e non ancora rappresentati.
INDICE
NOTA DELL’AUTRICE Teatro delle voci
INDICE DEI TESTI Casa senza bambole (2023). Il Precipizio. Teatro delle voci per Donatella e Rosaria (2020). Il tempo del vaiolo (2002). Ars Fulguratoria (1996)– Lengua de striga (2002) – Irina l’idiota (2023) un testo in cammino. Mida alla circonvallazione est (1994). Sparizione di Giovanna (1991). Leonora, atto quinto (1989)
VOCI IN DUE BATTUTE Er tantra de noartri. Anche la voce non avrà fine
TESTIMONIANZE inserite nel volume Enrico Frattaroli – Christine Hamp – Lorenzo Mango – Plinio Perilli
In copertina: opera di Enrico Frattaroli per l’allestimento scenico di Lengua de striga, RomaPoesia 2002
https://www.enricofrattaroli.eu/ARS_VISIVA/PERTURBAZIONI/lenguadestriga.html
NOTE DI LETTURA SUL VOLUME in ordine di pubblicazione
Anna Maria Curci, autrice, traduttrice e critica letteraria, su LETTERE MIGRANTI 25 marzo 2024
Mary Poltroni, attrice e autrice, intervista, Salone del Libro di Torino, 12 maggio 2024
Isabella Bignozzi, poeta e saggista, nota di lettura su ASTERO ROSSO 20 maggio 2024
Giansalvo Pio Fortunato, nota di lettura, su METAPHORICA anno 3, numero 5, gennaio – giugno 2024
Stefania Di Lino, poeta e artista, nota di lettura su ATTI DI POESIA IL 9 LUGLIO 2024
Laura Massacra, autrice e producer Rai, su LEFT 17 agosto 2024
Marco Colletti, poeta, artista digitale. Intervista su FREQUENZE POETICHE, 4 settembre 2024
Rosa Pierno, poeta, artista, critica. Recensione apparsa su TRASVERSALE 10 Settembre 2024
Marco Palladini, lettera all’autrice
Marzia Spinelli, nota di lettura novembre 2024, in via di pubblicazione
TESTI
Anna Maria Curci, autrice, traduttrice e critica letteraria (sul blog LETTERE MIGRANTI 25 marzo 2024)
Tiziana Colusso, Lengua de striga (nota di Anna Maria Curci)
Giansalvo Pio Fortunato, nota di lettura, su METAPHORICA anno 3, numero 5, gennaio – giugno 2024
Stefania Di Lino nota di lettura pubblicata su ATTI DI POESIA IL 9 LUGLIO 2024
La scrittura di Tiziana Colusso è una scrittura politica, pervasa e sostenuta, da un profondo senso civile e umano, a riconferma, e forse deluderò qualcuno, che l’atto della scrittura è e rimane un atto profondamente politico.
Susan Sontag afferma che ogni atto del vivere, ogni parola detta e scritta, sono atti politici, perché la politica non è certo chiudersi in una cabina ogni 4 anni, ammesso che il governo in vigore lo permetta, ed esprimersi all’interno di un recinto chiuso con una finta scelta in un range già preconfezionato dai padroni del vapore, cioè da chi detiene il potere economico ed è in grado d’influenzare e determinare l’andamento politico di un paese.
Inoltre, se è vero quel che dice David Foster Wallace, e cioè che nulla di diretto può essere davvero detto nella scrittura, questo può significare anche che l’atto dello scrivere è pur sempre un atto autobiografico, cioè una confessione che cerca “assoluzione” (Umberto Saba).
Fatta tale premessa, la scrittura si fissa a un indiscusso valore di autenticità da cui non si può prescindere, pena la perdita di aderenza e di aggrappaggio al vissuto umano, quindi di una esposizione al rischio di una sostanziale nullità dell’atto dello scrivere. Quindi si può ben capire cosa intenda Tony Servillo quando afferma che “ il teatro deve far male”, deve penetrare, scuotere, cambiare, deve rivelare e condurre, anche dolorosamente, a nuovi livelli percettivi, della realtà e di sé. La scrittura, al pari del teatro e dell’arte più in generale, che non siano intesi come puro intrattenimento, come divertissement, come prodotto soporifero per artefatte e presunte esigenze di mercato, deve risvegliare coscienze e contribuire alla crescita e all’evoluzione degli esseri umani. E questa potrebbe essere una risposta al perché, nel nostro paese, di fatto si è condannata a morte sia l’arte che gli artisti.
E la scrittura drammaturgica di Tiziana Colusso, in tal senso, fa davvero male perché costringe, in qualche modo ad assistere alla genesi del Male, e ai danni prodotti, alla sua mediocrità agita che emargina, dileggia, tortura, uccide; mediocrità intesa come abisso spirituale, che non è solo di chi il male lo compie, lo esercita, lo infligge, ma dell’intero consorzio umano che ruota intorno a determinati personaggi (vedi i fatti del Circeo raccontati in Precipizio, e Irina l’idiota_ Una pietra in gola), e che giustifica, alimenta la violenza, la occulta e quindi la sostiene, arrivando a difendere, e persino ad assolvere, chi concretizza il male ai danni dell’integrità altrui.
Ma chi sono questi “altri” a cui si crede di poter fare impunemente del male? Non sono certo i forti, i potenti, i ricchi, su cui si può infierire sadicamente, no! Sono coloro ritenuti a vario titolo, in un’ottica ferocemente gerarchica, fragili, inferiori, “ carne di scarto”, dice Colusso, o da cannone, in quanto poveri, prima di tutto, in quanto donne – in questa società le donne sono quasi sempre più povere degli uomini, quindi carne da macello due volte – oppure perché “diversi” nel colore della pelle, o perché portatori di qualche visibile e manifesta fragilità, secondo una dinamica tutta agita sia all’interno di determinate famiglie come in piccole comunità tribali, arcaiche, chiuse, ben conosciuto dagli studiosi come il fenomeno del “capro espiatorio”, contro cui si galvanizza e si proietta compulsivamente, periodicamente e con sadica ferocia, il Male che appartiene all’intera comunità.
Ritengo che sia proprio questa scrittura che ci inchioda lo sguardo sul “non visto”, sul “ non inteso”, sul “non percepito”, ovvero sul rimosso individuale e sociale. Solo una scrittura che assume su di sé la responsabilità e il coraggio della parola dal forte richiamo etico, ci può (forse) sollevare dal pantano morale e culturale in cui l’Occidente sta affogando.
Josip Osti, poeta di una Sarajevo sotto le bombe umanitarie (o almeno così definite dal nostrano politico Massimo D’Alema), afferma che la poesia deve avere lo stesso andamento della vita. La scrittura di Tiziana Colusso ci mette al riparo da edulcorati noiosi inattuali esercizi calligrafici, e ci immette invece in una parola di grande forza germinativa, capace di essere/ esserci (storicamente) nel suo presente. Si tratta di una scrittura fluviale, torrentizia, eppure tersa, cristallina, a tratti fredda, inevitabilmente chirurgica, per meglio descrivere gli attraversamenti umani negli orrori che altri umani sono capaci di perpetrare ai danni dei loro simili. Si tratta quindi di una parola presente, quindi una parola testimonianza, radente e fedele a fatti avvenuti, scritta e detta dopo sopralluoghi degni di un certo giornalismo d’indagine, come nel caso dei terribili accadimenti del Circeo in cui perse la vita Rosaria Lopez e a stento sopravvisse Donatella Colasanti.
Una scrittura attenta e sensibile, dunque, non solo alle storie “private” (seppure dovremmo aver appurato che il privato è sempre politico), ma anche alla contestualizzazione fenomenica sociale, oltre che letteraria: come per esempio, nel caso del racconto intitolato Casa senza bambole in cui il pensiero corre alla Nora del norvegese Henrik Ibsen, di Casa di bambola, dramma ambientato in epoca vittoriana in cui viene descritto il tragico crollo del sogno borghese di Nora, cioè il naufragio del suo “matrimonio perfetto”.
Nel racconto di Tiziana, contestualizzato nel contemporaneo, perciò attualissimo, si descrive il parossismo di amore tossico, ovvero di ciò che erroneamente viene scambiato per amore, ma che amore non è, di una coppia in cui l’uomo è affetto da un’evidente pericolosa patologia narcisistica. Il rapporto violento, anche sessualmente, viene consumato in una stanza sporca che connota visibilmente la malattia dell’uomo e in cui la donna è costretta a vivere in uno stato di segregazione. Ma al contrario del dramma di Ibsen, la parte conclusiva del racconto pare alluda ad una risoluzione positiva in cui la donna, riesce finalmente a liberarsi.
In questa sua scrittura drammaturgica e umanissima, Tiziana è visibilmente dalla parte delle vittime – ma come potrebbe essere il contrario? – vittime che sono prevalentemente donne, come nella vita reale, in una società culturalmente fondata sulle gerarchie economiche, quindi di classe, che genera endemicamente disparità, diseguaglianza, ingiustizia, creando divari sempre più incolmabili; una società che genera soprusi abusi violenze contro coloro che si ritengono indifesi, più deboli, inferiori, quindi facile bersaglio di emarginazione e bullismo. Coloro che presentano una diversità, una devianza secondo uno standard comunemente vissuto come unità di misura in cui calibrare gli esseri umani, che sia un’imperfezione fisica e/o mentale, una tara, si sarebbe detto ai tempi dell’efferato Josep Mengele, che può coincidere con una fragilità economica, come nel caso di Irina l’idiota, una pietra nella gola.
Malgrado questo Tiziana Colusso nella sua scrittura, come nella sua militanza civile, non esenta le vittime donne dalle loro eventuali responsabilità, anche solo di ingenuità, o di poca accortezza, Puelle, non sapete leggere i segni!, fa dire in Precipizio alla Maga Circe, che in quanto Mito, e sempre attualissima.
Ma di quali segni si parla? e di quale avvedutezza, se quei segni terribili vengono rimossi, messi a tacere, o addirittura interpretati, a causa di una stortura del codice primigenio, per interesse o, addirittura, per amore? Ed è proprio nella confusione, nella mancanza, nella carenza d’affetto, nel vuoto d’amore, che trova nutrimento la predazione, il sopruso, l’abuso, la violenza, soprattutto in un periodo culturale come il nostro, in cui il padre – principio maschile che ci apre al mondo, ma che insegna anche i limiti – il padre “evaporato” come per l’appunto lo descrive Massimo Recalcati, ha abdicato al suo ruolo, per motivi che storicamente potremmo anche individuare, ma che nulla toglie alle responsabilità di ognuno.
Tiziana Colusso, in riferimento all’atroce episodio in cui la madre di Ghira, tenta, senza riuscirci, di cancellare gli schizzi di sangue sul pavimento e sulle pareti, ai fini di proteggere il figlio, usa i versi della Ballata delle madri, poesia civile di Pier Paolo Pasolini:
<< Mi domando che madri avete avuto? Madri feroci, intente a difendere / quel poco che, borghesi, possiedono, / la normalità e lo stipendio, / quasi con rabbia di chi si vendichi ( o sia stretto da un assurdo assedio / Madri feroci, che vi hanno detto: / Sopravvivete! Pensate a voi / Non mai pietà o rispetto / per nessuno…>>
E in tutto questo, chiedo io, i padri che fine hanno fatto?
Se per Casa senza bambole, come dicevo, emergono forti echi e fantasmi della drammaturgia del Nord Europa, in Irina l’idiota – testo già segnalato alla 36ma edizione del Premio Montano, i rimandi evocati appartengono alla grande indimenticata letteratura russa.
Per Dostoevskij l’Idiota è il Principe Lev Nikolaevič Myškin, protagonista del suo romanzo, uomo in realtà estremamente intelligente e profondamente buono, (da qui la definizione d’idiota), che porta su di sé “la tara” di un’imperfezione, ovvero i segni di una malattia molto particolare come l’epilessia, di cui pare soffrisse lo stesso autore. Su tale figura lo scrittore fa convergere una dimensione sacrificale, mistica, anzi più espressamente cristologica in quanto è lo stesso Dostoevskij a citare nel romanzo l’intensa opera del pittore Hans Holbein il Giovane IL CORPO DI CRISTO SULLA TOMBA (1521).
Non lontana da questa visione, Tiziana Colusso fa della sofferenza della carne offesa oltraggiata e straziata, un passo fondamentale, un passaggio alchemico nella trasformazione di status della materia stessa, definendo “santa” Irina l’idiota, ( e come non pensare alla cattolicissima Santa Maria Goretti?), pur attualizzando tale nei riverberi ideologici di stampo femminista del nostro tempo, ma che ben si lega anche con certa iconografia etrusca, a cui si aggiunge, rispetto al romanzo russo, una dimensione magico- sciamanica, espresso sopratutto nel timore e nella soggezione di una nemesi da parte della comunità che pure ha giustificato e difeso i torturatori d’Irina, diventata ormai “immobile e solenne”, trasformata in una sorta di Medusa dallo sguardo maledicente, fulminante, proprio come giusta punizione, come contrappasso alla violenza commessa.
Irina l’idiota, dopo l’oltraggio, diventa una dea arcaica, una divinità di pietra scolpita dai venti, perfettamente inserita nel simbolismo del luogo (un cimitero) e nella morfologia marina del paesaggio, un Genius Loci da rabbonire e a cui portare doni per placarne l’ira funesta. Infatti, a chiusura del racconto, l’autrice fa dire alle voci del coro: “ Con quei doni le donne chiedono alla santa idiota di placare il vento che scuote le barche dei nostri figli, di dominare la furia dei fulmini vendicatori, di conservare la pace ai vivi e ai morti”.
Per quanto riguarda la vera definizione del termine “idiota”, a me piace riportare il seguente stralcio tratto da Idioti a Parigi alla scuola di G.I. Gurdjieff diari 1949 di John G. ed Elizabeth Bennett, libro scritto pochi mesi prima della morte di Gurdjieff stesso (scrittore filosofo mistico caro a Franco Battiato) e al suo insegnamento sulla Scienza dell’idiozia:
<<La parola idiota ha due significati: il significato vero che le fu attribuito dagli antichi saggi era “essere se stessi”. Un uomo che è se stesso sembra e si comporta come un matto per coloro che vivono nel mondo delle illusioni: sicché quando chiamano idiota un uomo, intendono dire che egli non condivide le loro illusioni.
Chiunque decida di lavorare su se stesso è un idiota in entrambi i sensi. I saggi sanno che egli è in cerca della realtà. I pazzi ritengono che abbia perduto il ben dell’intelletto. Si suppone che noi che siamo qui siamo in cerca della realtà e, così, saremmo tutti idioti: ma nessuno ti può far diventare idiota. Devi decidere da te.>>
Laura Massacra
Marco Colletti (poeta, artista digitale, letterato. Intervista pubblicata su FREQUENZE POETICHE, 4 settembre 2024)
MARCO COLLETTI, “Lengua de striga. Teatro delle voci” di Tiziana Colusso: un’intervista-recensione
Rosa Pierno (poeta, artista, critica. Recensione apparsa su TRASVERSALE 10 Settembre 2024)
https://rosapierno.blogspot.com/2024/09/tiziana-colusso-lengua-de-striga.html
Marco Palladini
«Ciao Tiziana, ho finalmente trovato il tempo per leggere il tuo libro, interessante perché agli antipodi della drammaturgia convenzionale e di impronta psicologica. Un teatro delle voci, come lo chiami, antinaturalistico e di evidente matrice letteraria, non di rado basato su forme di riscrittura e di remix mitopoietico. Mi sembra che abbia ragione Lorenzo Mango quando dice che, al di là di possibili letture/reading in teatro, questi testi per essere allestiti hanno la necessità di regie alquanto creative, fondate su scritture sceniche parallele, esplicate in risonanza o, magari, persino in opposizione con le parole. Il problema, annoso, è che il teatro scritto in questo paese raramente trova significativi sbocchi produttivi. Persino uno come Stefano Massini fa ormai il comunicatore in tivù, e una come la Calamaro si mette in scena da sola. C’è, peraltro, in Italia tantissimo teatro scritto anche da scrittori eccellenti che non ha mai trovato una destinazione scenica. Questo, purtroppo, è lo stato dell’arte. A’ bientôt, m.»
Marzia Spinelli
Teatro di voci è il sottotitolo di questa opera ampia, variegata, affollata di suoni e personagge( in tutti i testi c’è una declinazione al femminile, protagonista è sempre una donna), ma anche oggetti, accatastati, invasivi, lampade liberty e orologi, libri polverosi. Una scrittura essenziale e armoniosamente stringata, evocativa di messaggi e rimandi letterari, con cui Tiziana Colusso ci immerge in un vero e proprio corpus drammaturgico molto assortito. Sette testi, tra cui un unico monologo mai messo in scena e, in chiusura, un dramma in due batture e un assolo, scritti nell’arco di un tempo lungo che va dal 1989 al 2023, anni significativi di eventi personali dell’autrice e anche collettivi che hanno avuto certamente il loro peso.
L’abbrivio lo dà Casa senza bambole, unico monologo: la protagonista è prigioniera in una stanza polverosa, ingombra di oggetti, claustrofobica; unica possibile salvezza è l’immaginazione che le permette il sogno di libertà, risvegliare il corpo, tornare corpo e non più bambola di porcellana e volare via. Qui l’evidente richiamo ibseniano viene trasfigurato in una soluzione moderna più tragica e inquietante: la Nora ottocentesca in qualche modo ritrovava se stessa, qui la giovane contemporanea può forse soltanto immaginare una fuga.
In questo Tiziana Colusso non si abbandona a facili e felici soluzioni; la modernità é disincantata, cattiva, “un’anima chiusa” in “una società chiusa” come suggeriva Bergson, è spesso un precipizio. E tale precipizio trova il suo apice nel testo in memoria di Donatella e Rosaria, vittime del “fattaccio brutto” del Circeo, uno “gnommero” come lo definisce l’autrice parafrasando il buon vecchio Gadda. E fu davvero un gomitolo annodato del Male, di cui non abbiamo mai perso memoria noi ragazze degli anni ‘70…fu davvero uno spartiacque storico e politico dove il movimento femminista si pose in prima linea durante il processo ai “ragazzi per bene” e aprì la strada, assai lunga! alla modifica dell’articolo del codice penale che prevedeva lo stupro come reato contro la morale che finalmente soltanto nel 1996 divenne reato contro la persona.
Il testo è strutturato mirabilmente con una polifonia di voci (quella di Donatella testimone sopravvissuta, le voci degli assassini, le interviste, le deposizioni processuali e, su tutte, Circe, presenza intrigante ed emblematica, cerniera tra il mito classico e la realtà moderna, femminista ante litteram, dea, regina del luogo, del precipizio appunto, ma anche sortilegio e saggezza che invita alla Verità, con l’intimazione potente e profonda alle donne: vocate le vostre ragioni, puellae, diventate avvocate di voi stesse e stendete materne il sortilegio alledonne più giovani…
Il tempo del vaiolo è un dialogo tra quattro personaggi rifugiati in una sorta di bordello dalle finestre sprangate, ancora un luogo claustrofobico, a causa dell’epidemia diffusa nella città; testo inquietante per la capacità profetica di anticipare di vent’anni circa (il testo è del 2001) quanto accaduto nel 2019 con il Covid! Qui i riferimenti letterari sono dihciarati negli esergo, da Boccaccio a Edgar A.Poe alla Bachmann; c’è anche il richiamo alla figura mitologica di Atalanta fugiens (che ritorna anche nell’ultimo testo presentato Leonora atto quinto) nel personaggio cardine di Andrea, creatura androgina che avvolta nel suo mantello può attraversare la città malata senza essere contagiata perché in qualche modo protetta da una sua purezza e non appartenenza che ne fa quasi un essere extraterreno.
Segue poi Un testo in cammino, sottotitolo di una elaborazione più volte rivisitata nel corso degli anni in tre versioni, ma in realtà forse potrebbe essere una sorta di trilogia: Ars fulguratoria(1996), Lengua de striga (2002) e Irina l’idiota (2023) dove si alternano la figura della aruspice Vegoia e la santa idiota Irina, scema del villaggio che diventa poi strega processata da una fantomatica inquisizione; dunque tre versioni, tre voci che forse sono tre possibilità di espressione di una voce unica che le racchiude, una trinità femminile santa e dannata, incompresa e temuta, nella quale infine si fondono simbolismo cristiano e rito pagano.
Ma la vera protagonista di questo work in progress rituale e catartico di martirio, morte e rinascita é la lingua, questa Lengua de striga il cui titolo è ripreso da un testo di Cesare Ruffato in volgare padovano. Ma la lengua de striga è il teatro stesso, il suo linguaggio, il suo rito, la sua epifania, la sua azione ferma in un tempo indefinibile, sospeso eppure vissuto proprio attraverso quelle voci che danno corpo al reale.
L’autrice riattraversa poeticamente i topoi del teatro, dalla tragedia greca rievocata con la presenza quasi costante di un coro, dal teatro realista moderno di Ibsen e oserei dire anche di Cechov in forma latente…e ovviamente Brecht nella Sparizione di Giovanna dove si avverte anche un’eco pirandelliana..
E questa voce di parola che porta altrove, non si arrende, non si chiude a riccio, ma diventa la tua voce e quella di tutti, in un afflato civile, auspicio di nuova compartecipazione di cui Tiziana Colusso non ha dimenticato il valore, affinché le voci di allora e di oggi non abbiano fine.