Una « vacatio » spirituale nel Village des Pruniers, monastero e luogo di meditazione fondato in Francia dal maestro vietnamita Thich Nhat Hanh, propugnatore di un “buddismo impegnato”. Il maestro è stato proposto Martin Luther King negli anni ’60 per il Nobel per la Pace.
[fotoreportage, luglio 2009] © testo e foto Tiziana Colusso
Il destino ha fatto nascere Thich Nhat Hanh in Vietnam – nel villaggio Thùra Thiên, al centro del paese, nel 1926 – e questo ha segnato inevitabilmente il suo modo di essere monaco zen. Ordinato monaco all’età di sedici anni, tutta la sua vita è stata caratterizzata dal tentativo di armonizzare la ricerca della libertà interiore profonda, attraverso la contemplazione della vacuità dei fenomeni, con l’impegno nella realtà e nella Storia: infatti è stato lui a coniare l’espressione di “buddismo impegnato”, che ha poi illustrato in vari libri ed interviste. La sua concezione dell’ impegno non corrisponde esattamente alla nozione di “engagement” come siamo abituati ad intendere in occidente, nel caso di un intellettuale ad esempio il non rimanere con il naso sul foglio ma alzare lo sguardo sulla Storia: c’è anche questo, certo, ma nel caso di Thich Nhat Hanh oltre che il movimento del buddismo verso la Storia c’è il tentativo parallelo di portare per così dire la Storia verso il buddismo, ovvero di utilizzare il buddismo come chiave e strumento di trasformazione della coscienza individuale e collettiva.
Non è il luogo qui per un’esposizione dettagliata del pensiero – che poi è un pensiero/azione – di Thich Nhat Hanh, e del resto basta fare riferimento ai molti suoi libri tradotti anche in Italia. Voglio solo ricordare un suo libro che ho particolarmente amato, l’ho trovato in un’edizione francese pubblicata da Dangles, Soyez libre là où vous êtes, (Siate liberi ovunque voi siate) ma è reperibile anche in italiano, nelle edizioni dell’Associazione Essere Pace dove sono pubblicati alcuni i testi del maestro, mentre altri sono tradotti da Ubaldini, Mondadori e Neri Pozza. Si tratta del testo di una conferenza – ma forse sarebbe più esatto chiamarla “pedagogia spirituale” – che Thich Nhat Hanh ha tenuto qualche anno fa in un carcere statunitense, il “Maryland Correctional Institution”. Il testo è breve e sobrio, adeguato ad un uditorio che non avrebbe certo gradito sottigliezze dottrinali, ma non per questo il messaggio è meno efficace. L’accento è posto sulla convinzione che si può “camminare da uomini liberi ovunque, anche in una prigione”. Il tipo di approccio proposto da Thich Nhat Hanh ricorda quello di un altro simbolo vivente del pensiero/azione orientale, Aung Saan Suu Kyi, leader politica buddista, che ha intitolato uno dei suoi libri “Freedom from Fear” (Libera dalla paura, ed.it Sperling), proprio per dimostrare che la vera libertà non dipende dalle condizioni esterne, e che anche in una situazione di prigionia come la sua si può, anzi si deve, coltivare la ricerca della libertà profonda.
Thich Nhat Hanh ha attraversato come monaco zen un secolo furioso per il mondo intero e in particolare per il suo Vietnam. Ha fondato nel 1964, durante la guerra nel paese, uno dei movimenti di resistenza non violenta più significativi del secolo, I Piccoli Corpi di Pace, gruppi di laici e monaci che portavano aiuto alla popolazione costruendo scuole e ospedali e ricostruendo i villaggi distrutti, esponendosi così ad attacchi di entrambe le parti in guerra.
Thich Nhat Hanh ha pagato il suo “buddismo impegnato” con un esilio dal Vietnam durato quasi quarant’anni. Soltanto nel 2005 gli è stato concesso di tornare nel suo paese, per insegnare e tenere conferenze. Ammirato da Martin Luther King, che alla fine degli anni ’60 lo aveva candidato al Nobel per la pace, ha fondato in Francia, in una tranquilla campagna francese nei dintorni di Bergerac, coltivata a mais e uve di Bordeaux, il Village des Pruniers, il Villaggio delle Prugne, nome che deriva dai molti alberi di prugne da cui le monache ricavano marmellate che mettono in vendita per il sostentamento della comunità.
Dopo aver letto qualche libro di Thich Nhat Hanh, l’avevo visto “live” nel 2005 fa all’Auditorium di Roma, in una conferenza pubblica che però restituiva in minima parte l’esperienza che si può fare all’interno della comunità da lui creata. Per questo ho deciso di dedicarmi a questa “vacatio” mentale andando ad esplorare il Village des Pruniers. Nonostante il contesto agreste ed idilliaco, la vita del Villaggio-monastero è soggetta a regole ferree: orari antelucani, osservanza del Nobile Silenzio per molte ore della giornata, meditazioni, lezioni di Dharma con il Maestro, collaborazione ai lavori di manutenzione del luogo, anche i più umili. Ora et labora, insomma, declinato in versione buddista. Non è facile trasmettere a parole l’esperienza concreta della vita a Village des Pruniers, i primi giorni del mio ritiro temevo che tirare fuori la macchina fotografica o il taccuino di appunti avrebbe spezzato il refrigerio del Nobile Silenzio. Con il passare dei giorni, ho potuto sperimentare la verità di quanto ripeteva sempre il maestro Thich Nhat Hanh nelle sue lezioni di Dharma, ovvero che si può fare qualsiasi attività come una meditazione. Quando lavavamo tutti insieme le scodelle dei pasti o innaffiavamo l’orto, la concentrazione era palpabile. Quando le Sorelle stendevano i teli della sala di meditazione ad asciugare, come farfalle violette simmetriche, il loro viso rimaneva immerso nel sorriso della consapevolezza.
Dunque, anche attività come scrivere o fotografare potevano essere compiute come una Working Meditation, una meditazione lavorativa o lavoro meditante. Le mie sono foto da dilettante, con una macchina fotografica da turista, ma la cosa importante è che dopo un po’ di allenamento sono riuscita ad accordare i miei scatti al ritmo della respirazione consapevole. Inspiro, sono consapevole del loto, del boschetto, delle Sorelle, del gioco delle ombre creato da un albero frondoso sul pavimento della Sala di Meditazione. Espiro, mi radico in quell’immagine e invio lo scatto come un prolungamento dell’espirazione. Mi torna in mente un libro straordinario di Roland Barthes sulla fotografia, Camera chiara, letto in anni che mi sembrano lontanissimi, soprattutto mentalmente. Mi è rimasto soprattutto impresso il suo discorso sul punctum, ovvero sul punto di convergenza semantica che sembra quasi un addensamento di concentrazione. Il punctum – ricordo a memoria – non è il particolare più bello o riuscito della foto, ma il suo cuore pulsante. Ho ritrovato questa sensazione fotografando alcune scene del villaggio buddhista sul ritmo della respirazione consapevole: i colori mi sembravano più netti, i suoni risuonavano nelle orecchie fino all’ultima vibrazione, i passi sul vialetto erano pieni di intenzione, gli alberi emanavano un’ombra che era anch’essa un respiro. Anche le parole, le poche parole che affioravano tra un passo e l’altro, sono un respiro: se non “ispirate”, almeno sicuramente inspirate, ed espirate. Tutto qui.
Qui, una scelta delle foto e dei testi strettamente legati alle foto, in parte tratti da discorsi del maestro Thich Nhat Hanh e in parte miei.
«Voglio appiccare il fuoco alle capanne dove abitano i miei amici. Voglio istigare il caos per aiutarli a rompere le corazze che li isolano, voglio spezzare le catene che li legano e abbattere gli dèi che li reprimono. Il momento più bello della vita è assistere al ritorno di un amico, non un vero e proprio ritorno ma il momento infinitamente prezioso in cui emerge dal caos provocato dal crollo del suo ultimo rifugio » (da: Thich Nhat Hanh, “L’arte de cammino e della pace”)
«La cima di un albero durante il temporale è instabile e vulnerabile, in ogni momento il vento può spezzare i rami più sottili; ma se guardi giù, verso il tronco, vedi che l’albero è solido e tranquillo, e ti rendi conto che sarà in grado di resistere alla tempesta».
Nella foto, il maestro Thich Nhat Hanh durante una lezione di Dharma nel parco di Plum Village, luglio 2009.
Grazie alla valigia dispersa all’aeroporto ho l’onore di vestire il sobrio abito grigio delle novizie. Accanto alla statua di un Buddha sulla riva dello stagno dei fiori di loto, lascio che il sole mi prosciughi come una pietra maculata di ombre. La statua mi cede le sue molecole resistenti e io muovo la sua pietra con il respiro. Non c’è fretta. Sono già da sempre dove devo arrivare.
Imbevuti di silenzio, i cuscini della Sala di Meditazione restituiscono con sfarfallio violetto il prana al cielo estivo, sonoro di cicale. Le mani attente della Sorella lisciano ogni piega della stoffa, per liberare i pensieri caduti come foglie esauste dalle menti congestionate dei pellegrini.
La lezione sembra emanare non dalla statua inanimata che decora la nicchia della parete, ma dal gioco di luce che un albero frondoso proietta dal giardino sul pavimento della Sala di Meditazione, alfabeto di un Sutra sull’impermanenza. Legge scritta non su tavole di pietra né su fogli, ma su foglie sfogliate dalle stagioni.
Belle di verità, sorelle, i vostri bisbigli trasformano in gioco e assenzio il Nobile Silenzio.
Che gioco è questo? Suore contro laici… Scatenate dietro la palla, ma sempre con il sorriso della consapevolezza. E quando suona la campana, tutti i giocatori si fermano per tre rintocchi a rendere omaggio al Silenzio che fa ascoltare con orecchie più profonde il movimento del pallone e dei pianeti.
Un sorriso sornione, forse ricordo di una vita precedente nella vellutata famiglia felina. Il boschetto di bambù ondeggia elastico come la schiena di un leopardo
«Ascolta Shariputra, tutti i fenomeni sono per natura vuoti. Non sono né prodotti né distrutti, né immacolati né contaminati, non aumentano e non diminuiscono. Di conseguenza, nel vuoto non vi è forma, né sensazioni, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza: né occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente; né forma né suono né odore né gusto né contatto né oggetto mentale (…) nessuna sofferenza, né origine della sofferenza, né estinzione della sofferenza, né via, né comprensione, né realizzazione» (Dal libro delle pratiche della comunità monastica di Plum Village)
Tra i filari di Bordeaux, inebriata soltanto dal ritmo ondoso del respiro, che brucia e rinfresca, snebbia e confonde, esalta e acquieta.
Goccia sospesa tra un passato di pioggia mattutina e un futuro di linfa. Nel qui ed ora la goccia brilla come una pietra, densa di tutte le vite possibili.
Sorriso vegetale degli alberi potati, dell’orto che trasforma in succhi zuccherini un sorso d’acqua, sorriso sornione del vento che si infiltra attraverso gli infissi sconnessi.
Il fotoreportage è stato pubblicato sulla webreview LE RETI DI DEDALUS nell’ottobre 2009 e poi è entrato a far parte del volume LA MANUTENZIONE DELLA MERAVIGLIA (Stampa Alternativa /Nuovi Equilibri 2013)